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Marilena Pasquali: ” Verso la soglia.”

Testo critico (2011)

 

 

«Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza,
hanno deciso, per vivere felici, di non pensarci»

Blaise Pascal1

 

Ho scritto qualche pagina sulle opere di Alberto Beneventi quattro anni fa e poi ancora l’anno successivo. E ora, di nuovo, provo a confrontarmi con la sua pittura non facile, irta di punte, colma di contraddizioni e di ossimori – grida silenziose, presenze assenti, un tutto pieno che rimanda allo sprofondare nel vuoto… – . Nel frattempo, insieme alla stima per lui come artista è cresciuta anche l’amicizia, il desiderio di stare insieme e parlare, scambiandosi parole e pensieri per cercare le ragioni e sentirsi un po’ meno soli. É per questo, per il rapporto di amicizia che ci unisce, che mi sento in qualche modo autorizzata a toccare un tema difficile e quasi inaffrontabile, anzi forse ‘il’ tema a cui deve comunque giungere qualsiasi riflessione, qualsiasi tentativo di comprensione: l’incontro con la morte.

Credo sia giunto il momento di affrontare un argomento così spinoso, intimo ma non privato, perché, date per conosciute e condivise le riflessioni critiche proposte per Alberto nei miei scritti precedenti (la natura, madre e matrigna, come specchio dell’interiorità umana; il sentimento del tempo come durata; il ruolo fondamentale del colore-luce che ravviva la materia e al tempo stesso la trascende; i Muri come autoritratti, lacerazioni, pagine scritte sulla pelle della solitudine…); accettate dunque queste piste di lettura, ora è tempo di approfondire quel dialogo con la morte – cioè con il senso della vita – che già si intuiva nei Muri del 2008 e che nei Campi di neve più recenti sembra  aver trovato la dimensione più naturale e più giusta per svilupparsi.

In queste superfici scabre, bianco e nero ribollente come magma gelido, pare di assistere alla battaglia fra gli ultimi scricchiolii della vita ed il silenzio, un silenzio solenne che allaga uno spazio sempre più dilatato. Si amplia la visione e si distende il silenzio – come un velo, come un sudario –  su una natura prigioniera, una pelle ferita da rughe, sussulti, crepacci, vertigini e voragini, una vita non ancora sconfitta ma scossa da brividi incontrollabili, sfiorata da carezze ghiacciate come quel cielo lontano che si protende e sembra rinchiudersi sul primo piano.

Nei nuovi dipinti di Beneventi il silenzio vale in quanto metafora dell’assenza o forse, meglio, della perdita. Perché è questa la condizione davvero intollerabile, la consapevolezza che «niente è in grado di riparare la ferita della perdita di una vita, di una persona, che è sempre unica, irripetibile, insostituibile» (prendo questa riflessione da un appunto-riflessione dell’artista). Qualche anno fa anch’io cercai di approfondire il tema del rapporto fra arte e morte, nella costatazione che solo l’arte, in tutte le sue espressioni, ha la facoltà di trasformare pensieri e emozioni in immagine e attraverso l’immagine, consentendo così di accostarsi con qualche possibilità di intuire un senso, un significato, anche al punto estremo, quello più problematico e incomprensibile2. Riprendo dallo studio di nove anni fa una considerazione forse non inutile: «Solo i poeti e gli artisti sanno accostarsi, senza perdere la bussola della comprensione, persino della tenerezza, alla soglia tra la vita e la morte e tentare di oltrepassarla, pur sapendo che questo non è dato agli uomini, con immagini colme di senso, pre-sentimenti, pre-figurazioni, profezie in cui ciò che viene mostrato, nella sua anche cruda, allucinata nudità, è l’essenza stessa dell’uomo, la sua identità unica e diversa consapevolezza del morire e insieme tensione alla speranza – rispetto a ogni altra creatura della terra».

Se – come credo – Alberto Beneventi è un artista, questa è la direzione in cui si muove, mettendo in campo tutti gli strumenti espressivi  che ha maturato sia nello studio dei maestri più amati, da Soutine a Bacon, che nella sua esperienza personale, un linguaggio che parla comunque e sempre dell’uomo, senza necessariamente metterlo in scena con il suo corpo fisico quanto piuttosto riempiendo di umana tensione i suoi paesaggi, palcoscenici di un dramma muto, oceani di acqua e terra senza un messaggero che separi i flutti davanti al viandante.

Nei dipinti del ciclo precedente –  É tempo di partire del 2010, orizzonti di terra rosso-sangue e campi che grondano segni e colore – si coglie appieno la sensazione che un grande filosofo come  Jankélévitch ha definito un «andare senza ritorno» (la dimensione del viaggio, cioè del tempo), mentre nei recenti Campi di neve ciò che si avverte potente  è la sospensione persino del respiro davanti ad una soglia che non si osa toccare, il «partire senza ritorno», la fine del viaggio – e del tempo – per approdare laggiù, alla linea dell’orizzonte e non più oltre3.

Ma anche quando il nostro artista sembra muoversi in acque più calme, in territori meno impervi (ed è la volta delle sue Case del 2009-2011, nate da un appagante incontro con le atmosfere parigine), anche in questo caso un fiato gelido raffredda ogni taglio d’immagine, sia che si tratti di porte e lampioni fuori contesto e fuori asse, pericolanti come dopo una scossa tellurica – come accade in una tela Senza titolo del 2009 che, in qualche modo, richiama  l’Interno con finestra. In casa dell’albanese del 2005 – sia che riempiano l’immagine case una a ridosso dell’altra, come cortine di muri e finestre bucate dall’ombra, in strade sghembe, obbedienti ad una prospettiva ribaltata, che scivolano con un sentore di minaccia verso l’osservatore, portando sempre più vicina a lui quella soglia che, anche qui, si intuisce non essere poi tanto lontana.

Se nella Case il cielo pare fatto della stessa sostanza dei Muri, testimoni-grida di vite passate che ancora han voglia di raccontarsi, in un Campo di neve l’orizzonte non grida più: sta fermo lassù, al bordo della tela, pieno di cielo ma in attesa. E vi si intuisce, ancora una volta, come la vita sia materia aggrovigliata, pulsante, abbagliante e lacerata, tutta picchi e cadute;  e come il passaggio, la soglia sia un punto, un solo punto di luce nel buio, anzi il  ‘punctum’ del loro incontro. Questo orizzonte-soglia è infatti luce e buio insieme, un po’ come il «nero diverso [che vibra] di colori sortiti per così dire dalla loro stessa essenza», di cui scrive Marguerite Yourcenar a proposito della morte di Zeno nell’Opera al nero 2. E tutto il dipinto – terra impastata di neve, dita ghiacciate, forme contorte nell’armatura del freddo –  sembra tendere verso quella linea lontana, ma anche troppo vicina, che ogni suo elemento indica in tacita concentrazione come la soglia dell’inconoscibile.

Dicembre 2011 

1 Cfr. Blaise Pascal, Pensées et Opuscules, edizione di L. Brunschvicg, riveduta e aggiornata da G. Lewis, Parigi 1957, p. 166.

2 Cfr. Marilena Pasquali, L’immagine della morte (I e II), “Hortus Musicus”, nn. 12-13, Bologna, ottobre-dicembre 2002 e gennaio-marzo 2003, pp. 78-82 e 68-73.

3 Cfr. Vladimir Jankélévitch, La mort, Parigi, Flammarion, 1966, p. 294 (edizione italiana, La  morte, Torino, Einaudi, 2009).

4 Cfr. Marguerite Yourcenar, L’opera al nero, in Opere. Romanzi e racconti, Milano, Bompiani, 1986, p. 885-886.