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Cristina Muccioli: ” Le voci del bianco, i sogni delle case.”

Dal catalogo della mostra al
Centro Espositivo Mobalpa di Parigi (2011).

 

I quadri di Alberto Beneventi sono il libro sul quale il critico come lo spettatore può apprendere, sentire, vedere, allo stesso modo in cui nel ‘600 un bovino squartato era il nuovo testo che archiviava gli altri, quello inedito e svelativo su cui il sapiente speculava per praticare attraverso una nuova conoscenza.

Il bianco nel ‘900 è stato storicizzato dalle poetiche più incisive e sublimi allo stesso tempo.

Come sarebbe semplice citare gli Achrome di Piero Manzoni, le opere Maurice Utrillo, di Gino De Dominicis, di Jannis Kounellis, di Lucio Fontana, e chiosare con un’assicurazione per la vita nero su bianco: la smaterializzazione cromatica, la vanificazione di ogni colore, l’azione centripeta della ripulsa di tutte le tonalità che esplodono nella purezza del candore.

Nel 1839 il pittore Paul Delacroche affermò la nota sentenza secondo cui la pittura era morta. Aveva ragione, e a soppiantare senza margine di discussione e di senso superstite l’arte pittorica di maniera, era stata la fotografia.

Beneventi invece non appartiene a nessuna chiesa, a nessuna scuola, se ne è liberato dopo averla frequentata fino a domarla, per non appesantire la pittura di niente altro che non sia essenziale alla pittura stessa: la stesura del colore, la rappresentazione della luce nel suo apparirci, tra artificio e natura. Nessuna mimesi, nessuna competizione con la fotografia, nessun ritrattino da salotto buono, rifiuto netto dell’illusionismo che è tornato a sedurre proprio oggi tanti artisti senza memoria, tanti bravi decoratori paghi di copiare dal vero, paghi di copiare e basta.

Questo pittore invece guarda negli occhi un campo innevato e restituisce alla tela il freddo che lo sguardo più che la pelle può avvertire insieme con il silenzio, e con il peso pastoso della coltre nevosa marezzata di grigio là dove ghiaccia, di rintocchi di azzurrognolo dove il sole lo sfiora omaggiandolo di un sottile lembo di cielo: quell’avvertimento della morte stagionale esorcizzato dalla primavera, che soccomberà di nuovo al prossimo inverno.

Il bianco in queste opere non è vessillo di neutralità, evaporazione intirizzita di tutti i colori, così come il nero non è l’assenza. Il bianco è la purezza del bianco, è bianco nella sua sostanza, vista e ricordata, vista e rievocata per addensamento plurivoco e irregolare aggrappata a un muro, caduta su un terreno. Il bianco in Beneventi si fa pesante, colore dell’al di qua, di ciò che cade e resta sfidando la sua stessa natura scioglievole, friabile, cangiante: nulla come il bianco si fa pagina sgombra per la proiezione delle ombre, del deposito della polvere, del riverbero della più fioca delle luci.

La qualità della pennellata, la materia stessa della pittura incluso il supporto, è il vero oggetto dell’arte di Beneventi: l’arte di fare arte, l’arte della separatezza da ogni altra possibilità di espressione, linguistica, plastica, filmica, narrativa. Qui non si condivide niente, si sta incisi e rapiti in due sole dimensioni, sulla piattezza della tela, della carta o della tavola, così come siamo appesi al filo annodato di due coordinate: lo spazio, il tempo. Tutto il resto è un cortocircuitare angosciato e palpitante di visione e stato d’animo, è incursione materica nello spirito di un’intera epoca -la nostra- e di un’intera società, non di un pubblico raccolto in luogo comune, in un clichè.

E’ così che le sue case, serpeggianti in un viale nudo puntellato da sentinelle di monconi di alberi (che cos’altro non sembra un albero, la notte, senza fronde?) non scandiscono che cosa sia un palazzo, ma lo rivelano: il che non significa altro che velare un oggetto per la seconda volta.

Quel lungo viale risucchia verso il fondo della tela la schiera delle abitazioni che paiono ondeggiare, fanno venire la nausea come quando si lascia la terra ferma.

Altrove piccole villette, sole, si impongono sulla tela come protagoniste assolute, sciolte dalla presenza dell’uomo, avvolte dal vischio di un sonno in cui tutto può accadere. Beneventi ha spiato i sogni dei muri, ha resistito all’incubo di piazzuole lunari, è stato sveglio con chi, come le case, si addormenta solo nel crollo.

Dopo aver visto l’umanizzazione del mondo senza maschera, per quello che è, nella sua fissità e desolazione, nella sua solitudine randagia e immobile allo stesso tempo, Beneventi ce lo restituisce velato della pittura più magistrale, decisa, scarna e compiuta.